Se c’è una qualità di questa prolifica autrice che non le si può negare, questa è proprio la capacità d’incarnare i protagonisti dei suoi lavori. Aspetto facilmente confermabile da chiunque abbia avuto modo di leggere anche una sola delle sue opere.
Dotata di una sensibilità speculare, la Favaretto riesce con disinvoltura a riflettersi nell’altro, per indossarne i panni e farli apprezzare, chiunque esso sia e qualunque sia il mondo al quale questi appartiene.
Alimentata da una vivace curiosità, Silvia Favaretto mostra tenacia nel suo rispondere al richiamo delle voci più disparate. Anche il suono più flebile può divenire per lei stimolo alla ricerca, allo scandaglio nei meandri dell’animo umano, tra luci e ombre di quel qualcuno o di quel qualcosa che la attrae.
Vi sono intenti umani che, per la loro natura apparentemente insolita, quasi si prestano al fraintendimento. Sono voci talvolta flebili, relegate al fondo, e per questo destinate ad essere assorbite dal sentire comune, dal fragore regnante in superficie. Bene, sono proprio quelle le voci che attraggono la nostra autrice e che mettono in moto la sua creatività. Sono voci che emanano riflessi, prontamente catturati e trasmessi per mezzo della scrittura.
L’autrice diviene così specchio riflettente dei suoi personaggi, uno schermo posizionato ad arte per regalare loro una luminosità adeguata: intensa ma non accecante. Ma pur sempre una luce, capace di rendere giustizia favorendo l’incendio del silenzio.
Anche nel suo ultimo lavoro, il romanzo “Verde laguna”, Silvia Favaretto non poteva esimersi dall’essere portavoce d’anime. Soprattutto in questa storia che vede coinvolti i destini delle persone e dei luoghi a lei tanto cari.
“Una storia vera nella Venezia del Novecento”, è questo il sottotitolo di un lavoro che include tra i protagonisti la storia stessa: quella nota, rievocata con i riferimenti al secondo conflitto mondiale, e quella meno nota, giunta a noi attraverso il racconto orale dei sopravvissuti. Nel romanzo, l’autrice accende un faro proprio su una di queste ultime vicende, in particolare su un episodio che si rivelò nefasto per i suoi antenati.
La volontà di non disperdere il racconto orale consegnatole negli anni dai parenti allora sopravvissuti e fortunatamente ancora in vita, è stata all’origine di un lungo e minuzioso lavoro di scavo. Fondamentale era la ricerca dei tasselli mancanti, non solo a garanzia di una ricostruzione solida della storia, ma anche e soprattutto, come ha tenuto a specificare la scrittrice Lucia Guidorizzi nella sua postfazione al libro, per il dovere umano di restituire senso e valore alla vita che si tramanda di generazione in generazione.
Altra protagonista e presenza fissa del romanzo è Venezia, una città brulicante ma al contempo sospesa tra realtà e sogno. Una città dall’identità mutevole, capace di mostrare ora l’ossatura antica, per certi aspetti chiusa e inaccessibile, ora invece lo spirito aperto e accattivante.
Al pari di una guida esperta, l’autrice richiama a sé il lettore e, con descrizioni che promettono di fare strada negli angoli meno noti della città, ne catalizza l’attenzione. Ovvio che ci si senta indotti a seguirla fiduciosi, a starle dietro senza perdere il passo, pur di carpire il respiro più segreto della città.
Poi, come solitamente accade quando si è consapevoli che una incredibile avventura sta per volgere al fine, ci si scopre esitanti. Il passo allora diventa lento, quasi non si avesse voglia di abbandonare l’affabile narrazione, di uscire dalle pagine di un racconto che ci ha fatto stare bene.