Tre nomination miglior film internazionale (in sfida con E' stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino), miglior film di animazione, miglior documentario, un fatto storico, ed un percorso internazionale che dal Sundance lo ha già portato in tutto il mondo: c'è grande interesse per l'opera di Jonas Poher Rasmussen, il regista danese di Flee, in uscita con IWonder il 10 marzo.E oggi che la situazione dei profughi in fuga dalla guerra in Ucraina è drammatica e pesa su tutta l'Europa la storia raccontata in questo film è ancora più coinvolgente."Ci siamo conosciuti a scuola, avevamo 15 anni, ci vedevamo tutti i giorni e si capiva che era una persona 'diversa'. Si è tenuto dentro un segreto per 25 anni, io ho rispettato il suo silenzio e solo dopo molti tentativi sono riuscito a convincerlo a raccontarmela e solo ora a farla diventare un film", racconta all'ANSA Rasmussen volato in America per la promozione con l'Academy. Amin Nawabi, nome di fantasia, è cresciuto in Afghanistan e con l'arrivo dei talebani ha visto la sua vita, quella della sua famiglia così come tutte le altre, sconvolta. I talebani hanno portato via il padre e la madre si è messa in viaggio con i figli per raggiungere l'Europa, precisamente la Svezia dove lavorava il figlio maggiore. Per lei e i ragazzi una odissea tra mille pericoli, trafficanti di uomini, viaggi della speranza che diventano truffe, giorni e giorni senza poter uscire dall'abitazione di fortuna a Mosca per non essere incarcerati in quanto privi di documenti. E alla fine il sacrificio: con i soldi mandati da Stoccolma la scelta di puntare su un trafficante di lusso, garantito, ma bastano appena per una sola persona. Così la mamma sceglie Amin, adolescente. Peccato che anzichè in Svezia dal fratello maggiore arrivi a Copenaghen solo e senza soldi. Il sistema di welfare per i rifugiati lo prende in carico ma deve dire che la famiglia è stata sterminata e lui è un minore non accompagnato perchè non ha proprio nessuno. Con questa 'bugia' va a scuola, cresce presso una famiglia in affido, si fa una vita arrivando a diventare un professore di Princeton, oggi 36enne, con un compagno danese. "Tutto incredibile ma vero - dice il regista - una storia che volutamente è raccontata con un nome di fantasia per mia e soprattutto sua scelta. Perchè? Non vuole apparire, non vuole diventare visibile, essere riconosciuto per strada, vuole dare una testimonianza di quello che accade ad un rifugiato , dolore, spaesamento, solitudine, una sofferenza con cui cresci e che in qualche modo ti forma, ti plasma". Il linguaggio di Flee è l'animazione, i disegni animati delineano i tagli profondi con cui Amin farà i conti per tutta la vita anche ora che è un ricercatore d'eccellenza, tratti scarni come quelli di un graphic novel, mentre inserti di documentari a colori riportando ad un Afghanistan del tutto simile all'Europa fanno ancor più da contrasto con il buio del regime talebano. Un film, Flee, con un precedente famoso, quel Valzer con Bashir di Ari Folman sulla guerra in Libano che nel 2008 fece incetta di premi in tutto il mondo. "Il linguaggio del cinema d'animazione sembra - spiega il cineasta danese - persino più potente della fiction e credo di poter immaginare perchè: siamo invasi di immagini del reale sui migranti, sulle guerre, siamo colpiti certo ma anche assuefatti e così relazionarti con l'animazione, pur non avendo un volto umano davanti, ti ripresenta tutto il dramma in una veste diversa". 'Amin', ci racconta Jonas Poher Rasmussen, "non sa ancora se mi accompagnerà alla notte degli Oscar, intanto è felice che la sua storia abbia fatto già tanta strada e abbia portato attenzione alla condizione dei rifugiati. Le statuette? Speriamo".