L’opera teatrale in questione è una rivisitazione dell’adattamento scenico che Dale Wasserman realizzò per Broadway nel 1971 del romanzo di Ken Kesey,che racconta, attraverso gli occhi del personaggio di Randle McMurphy, la vita di soprusi dei pazienti nei manicomi statunitensi in quegli anni.
L’idea di base da cui Maurizio de Giovanni parte per la rilettura dell’opera è quella di attualizzare e contestualizzare l’adattamento teatrale di Wasserman in modo da renderlo più vicino a noi.
Niente male fino a questo punto, se non fosse che nell’andare a metterla in pratica i personaggi diventano caricaturali e la storia affoga in un susseguirsi di comicità scontata, e a tratti volgare, alternata a scene di serietà in cui il copione si incastra in discorsi impastati in una profondità e in un sentimentalismo che risultano fuori luogo, in un contesto fatto di battute squallide e napoletanità caricaturale. Il significato profondo della storia e la sua natura di denuncia sociale non risulta così chiaro e il messaggio si perde, lasciando il pubblico con una comicità banale e una trama troppo lunga e complessa che, ormai privata del suo filo conduttore, diventa difficile da seguire.
La bravura di quelli che potremmo considerare attori validi si perde nell’interpretazione di personaggi piatti e unidirezionali, privi di spessore psicologico e definiti da un atteggiamento o tratto caratterizzante che si ripete all’infinito, senza aggiungere nulla di nuovo alla storia.
I personaggi che risultano i più riusciti sono forse quelli che si avvicinano ai personaggi che ricordiamo dalla sceneggiatura di Wasserman, come nel caso di Suor Lucia (aka l’infermiera Mildred Ratched) e Fulvio Calabrese (aka Billy Bibit), ma essi risultano comunque un’ imitazione banalizzante degli stessi, quando in due ore e più di spettacolo si sarebbe potuto dare spazio ad un maggiore approfondimento psicologico dei personaggi piuttosto che a scene dalla teatralità eccessiva e dalla dubbia comicità.
A questo proposito apro una piccola parentesi su un personaggio che, a differenza degli altri, sembra d’obbligo commentare da vicino; il personaggio di Grande Capo o in questo caso di Ramon Machado, che da individuo dotato di una dignità immensa e di una personalità unica, si trasforma in un gigante impaurito, e a tratti addirittura in un bambinone bisognoso di cure, perdendo, in parte, quel carattere essenziale che lo rendeva il vero cuore della storia.
In conclusione la rilettura dell’opera in una chiave che riporta a quello che sembra un teatro delle maschere, riduce la trama ad una comicità mortificante e non necessaria che distrugge o non rende evidente il significato insito in una storia tanto grande.
Unica nota positiva risulta essere la scenografia che trasporta in un’atmosfera coinvolgente e significativamente adeguata al contesto dei fatti narrati.
a cura di La Penna Insolente