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AL TEATRO ARGENTINA DI ROMA IN SCENA LO SPETTACOLO DI JAN FABRE “BELGIAN RULES/BELGIUM RULES”
UNA SATIRA SUL BELGIO, TRA RUBENS E FELLINI, CON QUINDICI DANZATORI-ATTORI: “MOLENBEEK È UN POSTO MERAVIGLIOSO DOVE TUTTI SI VOGLIONO BENE”-
Katia Ippaso per il Messaggero
«Molenbeek è un posto meraviglioso dove tutti si vogliono bene». Non è un refuso, ma il paradosso di un grande artista che ha fatto dell'iconoclastia la propria arma di battaglia. Nell'ultimo spettacolo di Jan Fabre, Belgian Rules/Belgium Rules appena visto all'Argentina di Roma per Romaeuropa Festival i suoi quindici danzatori-attori ci fanno anche sapere che «i belgi odiano tutte le guerre e non litigano mai». Per dimostrarlo, sei giovani donne da sotto la pelliccia tirano fuori elegantemente i loro fucili personali, «quelle armi che noi vendiamo soprattutto agli americani, agli arabi e agli israeliani».
Regista di fama internazionale, Jan Fabre provoca, non solo ai suoi connazionali ma a tutti gli europei, un piccolo choc emotivo. Anche i più distratti hanno sentito parlare di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove, dal 2001, sono passati gli autori di quasi tutti gli attentati jihadisti che hanno colpito l'Europa negli ultimi anni. E nessuno se lo immagina come un posto solo meraviglioso. Il problema però, sembra dire Fabre, sta proprio lì: nella costruzione di un immaginario sintetico adatto più ai depliant turistici e alle mappe del terrore che alla creazione di un pensiero creativo volto al cambiamento dell'umanità, di cui però diffida.
L'unica cosa di cui, apparentemente, non diffida, è il teatro. Non è forse nel corso della rappresentazione de La muta dei portici di Auber sulle gesta di Masaniello che il popolo belga si sollevò per ribellarsi al dominio olandese? Al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles l'opera lirica andò in scena il 25 agosto del 1830. Di lì a poco fu proclamata l'indipendenza del Belgio. Un evento che viene più volte rievocato durante Belgian Rules/Belgium Rules, quattro ore di spettacolo in cui i quadri plastici scivolano l'uno nell'altro con bellezza, grazie alla presenza atletica, radicalmente espressiva, di performer-attori che passano agilmente da una lingua all'altra del Belgio unito/disunito.
Nell'invenzione satirica del regista di Anversa, le regole che il suo popolo si è dato per costruirsi un'identità sono un capolavoro di nonsense. Gli unici punti fissi sono «le patatine fritte, che non sono francesi ma belghe» e i piccioni, per cui sembra che a Bruxelles si nutra un'autentica venerazione: in una scena virata sul blu, una famiglia di piccioni siede a tavola tranquillamente, defenestrando umani e scheletri. È una logica capovolta quella che guida l'intera opera, dove si passa da momenti di arte sacra a scene da opera buffa, in un'alternanza a tratti meccanica.
Nei chiaroscuri del palcoscenico si ricreano quadri di Rubens, Brueghel e Magritte, con effetti di silenzio pittorico che lascia disarmati. Come accade sempre in Fabre, il corpo è esposto e giocato in tutte le sue parti anatomiche, in modo da legare inconsciamente eros e misticismo. Per 240 minuti, scorrono fiumi di birra, che il Belgio produce in migliaia di etichette diverse. L'odore invade la sala.
L'esperienza a cui siamo chiamati è dichiaratamente sensoriale, eppure c'è qualcosa che non permette di eliminare la quarta parete, come se ci fosse una consapevolezza, un'autocitazione di troppo. Nelle sue note di regia, Jan Fabre afferma di rifarsi a Roma di Federico Fellini (del 1972): «Durante le prove dello spettacolo, ho chiesto ai miei allievi di vedere il film e di adattare alcune scene al contesto belga». Ma c'è qualcosa di sottile che separa Fellini da Fabre. Il regista belga rivendica un'appartenenza al suo paese e all'élite artistica, appropriandosi di Artaud a Kantor e facendo dell'eccesso un'arma di attacco critico.
Fellini, invece, dietro la sua cifra satirica mostra sempre una nota di pietas e stupore per le creature che incontra: Roma, in particolare, è la città onirica che il giovane Federico vede per la prima volta a vent'anni. Alla fine de I Vitelloni (del 1953), Moraldo prende un treno che lo porterà via da Rimini. Con Roma, Fellini racconta l'incanto di chi giunge da una provincia straniera per la prima volta alla Stazione Termini, e che quella magia non riuscirà mai a togliersi dagli occhi.
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