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L' importanza che Servillo attribuisce alla voce io la do allo sguardo..Tullio Pericoli
LA SINTONIA FRA TULLIO PERICOLI E TONI SERVILLO INCORONATA IN UN LIBRO - L’ATTORE RECITA LA POESIA “NAPULE” E PERICOLI LO RITRAE: “LA VOCE DI SERVILLO TRASFORMA LE PAROLE IN PERSONE. IL SUO VOLTO È COME UNA COMPOSIZIONE DI KLEE, UN INSIEME DI IMMAGINI”
Il pittore-disegnatore: “La stessa importanza che Servillo attribuisce alla voce io la do allo sguardo. Il vedere, come per lui il dire, non è solo un atto spontaneo è una forma d’arte" - L’attore: “Pericoli ha raccontato con la matita i segni che la maschera lascia ogni volta che passa sul volto dell’attore”... -
Antonio Gnoli per “la Repubblica”
È stato un incontro cercato, voluto, desiderato quello tra Tullio Pericoli e Toni Servillo, tra una matita e una maschera. Insieme hanno realizzato un libro insolito. Forse unico: “Piccolo teatro” (edito da Adelphi, con un testo conclusivo di Matteo Codignola). Un’opera che, per eccentrica indefinibilità, avrebbe ingolosito Alberto Savinio o Giorgio Manganelli.
Un’opera, sonora e visiva, che, in una sequenza vertiginosa di atti pittorici, fissa il volto di Servillo mentre grida, implora, condanna, bestemmia, insulta, patisce. Insomma recita “Napule”, la lunga poesia-litania di Mimmo Borrelli. Incontro Servillo e Pericoli nello studio di quest’ultimo. Sono un po’ emozionati, per qualcosa che hanno fatto e che non si aspettavano. Li lascio parlare. Liberamente.
Pericoli: Pensavo da tempo all’idea di un ritratto che non fosse la realizzazione da fermo di una sola immagine. Diciamo pure di una posa. Ma la sequenza di una serie di movimenti del volto che esprimessero le emozioni più diverse. E immediatamente il pensiero si è posato sul teatro di Toni Servillo, sul suo volto intenso e mutevole.
Non sapevo se sarei stato capace di restituire la fluida mobilità delle sue parole. Ma quando l’ho visto recitare, nell’ultimo spettacolo a Milano, gettare le parole dalla scena sul pubblico, come fossero fiori e pietre, ho provato un senso di stordimento e di ammirazione. E ho capito che quell’idea si poteva tentare di realizzare.
Servillo: Tutto è accaduto nella sera in cui ho recitato i classici e i contemporanei della poesia napoletana. Tullio è venuto in camerino e mi ha proposto questa cosa apparentemente stramba, in realtà bellissima.
La verità è che se penso ai ritratti di Pericoli mi accorgo che non sono mai fine a se stessi, mi appaiono come il risultato di pensieri che indagano e svelano una maschera. Sono rimasto incuriosito e lusingato dalla sua richiesta. Ma anche sconcertato dall’idea che si potessero disegnare le parole di una poesia — Napule di Mimmo Borrelli — come fosse un fumetto.
Pericoli: Le parole sono disegnate in modo che possano anche suggerire un suono; una vocalità messa al servizio delle emozioni che la voce di Servillo esprime. Mentre ti sentivo recitare mi accorgevo che la tua voce era in grado di far diventare le parole dei personaggi. È stata una sensazione stranissima. E sono voluto andare più a fondo in questa sorta di drammaturgia, cercando di restituirla con la mia lingua muta che è il disegno.
Servillo: Quando sono stato per la prima volta nel tuo studio e mi hai chiesto di recitare più volte il testo di Borrelli, vedevo in te l’eccitazione infantile di chi era davanti a un gioco nuovo. Sembravi stregato da ogni minimo cambio di espressione. Tullio mi danzava intorno con una macchina fotografica e scattava, scattava.
Poi l’ho visto salire su una piccola scala e da lì, in una prospettiva diversa, scattare nuovamente. In quel momento ho anche pensato che Tullio stesse aggiornando le pose del linguaggio della commedia dell’arte.
Pericoli: In che senso?
Servillo: Ci sono esempi importanti di attori, come Petrolini o Eduardo De Filippo, fotografati nell’atto di esprimere attraverso il corpo i sentimenti di una commedia: l’ira, la paura, la gioia, l’ironia, lo spavento. Ma nel tuo caso c’era qualcosa di più, c’era l’idea che la matita avesse il potere di trasformare la parola in suono.
Pericoli: Nella nostra seduta ho scattato centinaia di foto. Per me era il punto di partenza. Ascoltavo le espressioni dialettali, a volte ammiccanti, altre ancora drammatiche; spesso contrastanti.
E ho per prima cosa indagato la bocca che sputava le parole: schiacciandole, liberandole, comprimendole, scaraventandole. Provavo una sensazione stranissima. Sentivo le frasi uscire dalla gola sbattere sui denti, sibilare tra le labbra e poi planare nel vuoto d’aria. Ed è vero, ho provato come una gioia infantile.
Servillo: Posso aggiungere che ho avuto il privilegio di vedere un artista catturato dalle trasformazioni di un volto. Ma una parte non irrilevante di questo esperimento è attribuibile alla qualità del testo di Borrelli che, non a caso, è stato dato integralmente alla fine del libro.
Pericoli: Il testo di Borrelli è una specie di laude e di bestemmia, scritta alla maniera di un Jacopone da Todi. Un testo viscerale, inzuppato di saliva e sorretto da una lingua, il napoletano, che ha esaltato le tue doti di interprete. Ma non solo: il suono ha trasceso la sua stessa fisicità e credo sia questo che mi ha permesso di tradurlo in immagine.
Servillo: Immagine è la parola che evoca un campo visivo ricchissimo. E il suono — o meglio la memoria che ne conserviamo — la sua consistenza, la sua eufonia, si è rivestito di una dialettalità unica. Voglio dire, che la lingua napoletana, essendo lingua materna, legata a una ferita esistenziale, ci ha dato la possibilità di essere testimonianza in voce di qualcosa che è andata persa e tuttavia è ancora presente come traccia, come un’eco che sopravvive nella nostra testa.
Pericoli: Mentre parlavi pensavo che la stessa importanza che tu attribuisci alla voce io la do allo sguardo. La cosa che in questo momento della mia vita reputo più importante è capire come funzionano i nostri occhi e quanto impegno occorra nel vedere. Ci sono mille cose che ci distraggono. Il vedere, come per te il dire, non è solo un atto spontaneo è una forma d’arte.
Non ci prefiggiamo mai di vedere. Eppure, dovrebbe essere uno dei nostri impegni. Quando tu recitavi Napule era come se io vedessi le parole prendere una forma. E ho pensato, come raramente accade, che tu sai far diventare le parole personaggi. Le fai recitare.
Servillo: Credo che la voce di un attore sia la più straordinaria testimonianza del modo in cui l’esperienza del mondo si innesti nel suo profondo. Io sono stato ritratto non quando interpreto un personaggio, ma mentre recito un testo poetico che affida al suono il significato intimo di quello che intende dire: una lunghissima litania sul nome di una città, declinata in mille emozioni, in mille sentimenti. Tu hai raccontato con la matita i segni che la maschera lascia ogni volta che passa sul volto dell’attore.
Pericoli: Servillo più che alla maschera mi fa pensare all’antimaschera. Tutti i grandi attori sono riconoscibili in una maschera. Così Eduardo o Totò. Servillo ha dato il suo volto in pasto alle parole. Non c’è un’espressione fissa. Il suo volto è come una composizione di Klee, un insieme di immagini. Non so se ne sei consapevole. Ma è la cosa meno importante per un attore saperlo.
Servillo: Perché meno importante?
Pericoli: Perché un attore non è mai quello che farà, è quello che dice in quel momento. La prima volta che ho disegnato il tuo volto, accadde mentre recitavi un testo di Marivaux. L’avevo preso da una pubblicità dello spettacolo e poi la sera a cena ti ho fatto vedere quello schizzo. Tu lo hai guardato e poi sei come sobbalzato. Come se quei pochi tratti a matita non ti appartenessero. Non ti sei riconosciuto. In quel momento ho pensato che la consapevolezza di quello che vedevi tu e ciò che vedevano gli altri era molto diversa.
Servillo: Sì, mi ricordo quel momento. E la mia reazione non era dettata da qualche delusione veristica, semmai dal caos ingovernabile che il volto di un attore manifesta. In un’epoca in cui siamo tutti perfettamente riproducibili, il lavoro dell’attore sul proprio volto esige imprevedibilità e inconoscibilità. Quanto al richiamo a Klee, alla sua magmatica visione delle cose, mi fai pensare ai microrganismi di cui il mare è pieno. Sono le spore.
Basta un’onda perché esse vengano disperse, fino a sparire. Questa è anche la tensione che credo ti abbia mosso nel cercare in maniera impossibile le spore del volto di un attore in un preciso momento. Prima che un’onda le dissolva. Nella caducità del volto umano hai colto l’essenza più profonda, ma anche la sua tragica imprendibilità.
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