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Intervista a Francesca Garofalo 1° Premio per la Narrativa al XVII° Premio letterario internazionale Napoli Cultural Classic
10/06/2022
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I finalisti di CineCi' - CortiCulturalClassic 2022 a Palma Campania vi aspetta la grande festa del cinema giovanea
07/06/2022
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17° Premio letterario internazionale NCC - Bando 2021/2022
23/11/2021
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17° Premio letterario internazionale NCC - Bando 2021/2022
23/11/2021
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23/11/2021
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Ornella Muti, la vera diva mancata del cinema italiano
08/08/2022
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L'attore Lando Buzzanca alla fine degli sessanta e settanta è stato un uomo molto desiderato nell'immaginario femminile
05/08/2022
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L'attore Guido Di Geronimo: " Mi piace ritenermi una spugna, perché sono convinto che non si smetta mai di imparare e ogni occasione può essere quella buona per apprendere uno stile, una tecnica, un movimento, un’intonazione."
25/07/2022
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L'attore Giordano Petri: "Anche interpretare personaggi sbagliati, diversi, quelli che non sono arrivati al successo, è stato emozionante e mi hanno fatto crescere e maturare."
20/07/2022
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Giuseppe D’Angelo: "Ho cercato sempre di studiare, sperimentare, approfondire e soprattutto coltivare le mie passioni, il teatro e la musica, che sono sempre state il leitmotiv della mia vita."
19/07/2022
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arte, costume e spettacolo in primo piano..anche con Donna Summer
ALLA FACCIA DELLA DISNEY, CHE NON VUOLE INVESTIRE NELL’ANIMAZIONE ITALIANA PERCHÉ DI BASSO LIVELLO, IL CARTOON “L’ARTE DELLA FELICITÀ” DI ALESSANDRO RAK HA VINTO AGLI “EUROPEAN FILM AWARDS”
“L’arte della felicità” è costato solo 800mila euro a differenza di altri film animati che hanno richiesto investimenti molto più altri: “Persepolis” 6 milioni di euro, “Walzer con Bashir” 2 milioni e mezzo - Dopo L’arte della felicità, è arrivata anche “La cantata dei pastori”, mediometraggio di animazione per Raiuno…
COSÌ NEL VENTRE DI NAPOLI LA CREATIVITÀ DIVENTA CARTOON DIETRO LA VITTORIA AGLI EFA DEL FILM DI RAK, UNA FACTORY DI GIOVANI ARTISTI
Fulvia Caprara per “la Stampa”
Il nome, «Mad», allude a quel pizzico di follia che caratterizza, da sempre, le imprese più coraggiose. Mad per dire «musica, animazione, documentari», ma anche per dire pazzo in lingua inglese: «L’ispirazione del film - racconta il produttore Luciano Stella - viene dalla manifestazione L’arte della felicità, una serie di incontri, dibattiti e conversazioni sul tema, cui hanno preso parte persone diverse, filosofi, pensatori, dallo scrittore e monaco buddista Robert Thurman, padre di Uma, al filosofo e sociologo francese Edgar Morin. Sulle prime pensavamo a un documentario, poi ci è venuto in mente di farlo in animazione».
L’inizio di tutto risale a 3 anni e mezzo fa, per la realizzazione del film ci sono voluti 18 mesi e la prima proiezione risale alla Mostra di Venezia del 2013 dove L’arte della felicità ha inaugurato «La settimana della critica». Poteva finire tutto lì, e invece Luciano Stella, Alessandro Rak e tutti quelli che ci avevano lavorato, si sono convinti che andare avanti era importante: «Si era creata una squadra, con talenti incredibili, così abbiamo deciso di continuare mettendo insieme, come avevamo fatto per L’arte della felicità, disegnatori, animatori, musicisti».
L’appartamento dove è nato il film, a Piazza del Gesù, ventre di Napoli, stesso palazzo dove sono state girate sequenze di Matrimonio all’italiana e dell’Oro di Napoli, è stato trasformato in modo da ricavare lo studio di registrazione musicale e quello per disegnare: «Volevamo che lo spazio avesse una continuità, che le persone che ci avevano lavorato non finissero per disperdersi nel mondo».
Alla base di tutto, oltre al talento e all’inventiva, c’è il legame forte con le radici culturali partenopee: «Della nostra filosofia - dice Stella - fa parte il rapporto stretto con il territorio, con una cultura e con una tradizione che amiamo. A noi piace stare qui». I cervelli, insomma, non devono per forza fuggire: «Lavoriamo sulla contaminazione, come a suo tempo fece Roberto De Simone con La gatta Cenerentola, un gioco che coinvolse i ragazzi di allora perché mescolava antico e moderno, tradizione barocca e gusto del travestitismo..».
E infatti, dopo L’arte della felicità, è arrivata La cantata dei pastori, mediometraggio di animazione per Raiuno, mentre ora è in preparazione una Gatta Cenerentola «re-interpretata in chiave dark». Un altro progetto riguarda «un documentario che, mescolando animazione e live action, racconta la figura del presidente uruguaiano Josè Pepe Mujica».
A «Mad», avvicendandosi in base ai lavori in corso, sono impegnate circa 50 persone di età comprese tra i 28 e i 35 anni: «Rak ha messo in piedi una squadra di coetanei e li ha formati, mentre realizzava il suo film». Ora è alle prese con Skeleton Story, serie basata su una graphic novel pubblicata da un editore napoletano.
L’arte della felicità è costato 800mila euro, Persepolis 6 milioni di euro, Walzer con Bashir 2 milioni e mezzo, Pinocchio 7 milioni, sempre restando in ambito europeo, senza paragonarsi ai kolossal Usa. Il premio agli Efa è anche la risposta eloquente alla polemica scoppiata ultimamente dopo che la Disney ha dichiarato di non voler più investire nell’animazione italiana perchè di basso livello: «Secondo una legge, che in Francia viene rispettata, alcune multinazionali sono obbligate a reinvestire il 10% del fatturato nel Paese in cui hanno una filiale. Se l’Europa ha premiato il nostro film, vuol dire che siamo all’altezza dei loro investimenti».
RAK: FARE ANIMAZIONE È ANDARE OLTRE IL CINEMA, É SUONARE UN PIANOFORTE CON INFINITI ACCORDI
Fulvia Caprara per “la Stampa”
Per Alessandro Rak il viaggio di ritorno, da Riga a Napoli, è ancora pieno di eccitazione, telefonate, complimenti: «No, non mi aspettavo di vincere, più forte dell’emozione è stato l’imbarazzo».
Come è diventato regista di animazione?
«Sono stato allievo del Centro Sperimentale, a Roma, sostenendo l’esame per entrare nello stesso giorno in cui facevo la maturità».
Perchè proprio l’animazione?
«Perchè è un multilinguaggio che esplora l’illusione del movimento e riesce a coniugare cose diverse come la musica, il disegno, la tecnica. È qualcosa che va oltre il cinema, è come suonare un pianoforte con infinite possibilità di accordi».
Quali sono i suoi disegnatori prediletti?
«Il panorama è immenso, sicuramente mi ha molto segnato Hugo Pratt, e poi Moebius, Miyazaki e anche Tim Burton».
Da spettatore, qual è il suo film d’animazione preferito?
«Mi è piaciuto moltissimo Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson».
Nella factory dove è nato il suo film si fa anche formazione, in che modo?
«L’idea è semplicemente quella di operare orizzontalmente, sono convinto che per insegnare non sia necessario un edificio scolastico, se io so fare una cosa, la faccio vedere a un altro che, facendola, la impara».
LE CINE-STRONCATURE A FUMETTI BY STEFANO DISEGNI: “THE TERMINAL” DI SPIELBERG?: “PATETICO. È ARRIVATO AL TERMINAL PURE LUI” - L’AUTOCRITICA SULLA BELLUCCI: “RISPETTO AD ASIA ARGENTO È ANNA MAGNANI”
Stefano Disegni raccoglie in un libro le strisce in cui demolisce senza riguardi 60 film - C’è anche spazio per il revisionismo sulla Bellucci: “L’ho sempre disegnato con la faccia canina, onde metaforizzare la sua capacità di recitazione. Ma non avevo sentito Asia Argento. Mi scuso e le restituisco il volto”…
Malcom Pagani per “il Fatto Quotidiano”
recuperare le feste di Natale, nulla di meglio de L’ammazzafilm. L’ha scritto e soprattutto disegnato un eterno ragazzaccio che veste in jeans e finge che gli anni non siano passati. Da cinefilo a disagio con la cinofilia di troppi registi, Stefano Disegni ha raccolto per Gallucci (117 pagine, 19 euro) le strisce disegnate per Ciak e raso al suolo senza riguardi sessanta film del nostro recente passato. Ce n’è per tutti.
Sceneggiatori, attori e mostri più o meno sacri da Alfonso Cuaròn a Federico Moccia: “Sò Federico Moccia e ve vorrei parlà del mio prossimo film ‘nessuna paghetta vale il tuo amore’”, da Robert De Niro a Roberto Benigni di cui Disegni stronca La tigre e la neve costringendo il comico toscano vestito da Papa: “Pace e bene a tutti, l’amore è bello e l’odio è brutto, a scuola si sta composti, i segnali stradali vanno rispettati” a confrontarsi con il fantasma del Cioni Mario: “Sono il meraviglioso, esilarante cinico toscanaccio che facevi con Giuseppe Bertolucci quando ancora non ti eri rincitrullito” e infine, dopo l’abiura: “Cioni Mario? ‘un ti ‘onosco, mai sentito” ad allontanarlo.
Nel libro a colori di Disegni si muovono fantasmi inclini a dialoghi surreali e operazioni cinematografiche di stampo alimentare a cui Disegni, dimenticando i miti di gioventù, non risparmia nulla non risparmiando a sé il dolore: “Questa commissione assegna il premio onestà intellettuale 2010 a Stefano Disegni con la seguente motivazione ‘In questo brutto mondo in cui la gente si fa piacere per forza delle ciofeche, Disegni non esita ad attaccare Clint Eastwood’”.
Un signore che nel suo ricordo biografico ha avuto gli stessi meriti di tale ‘er Minecchi: “Il mio compagno di Liceo che alle feste portava un sacco di figa”. Il mestiere del critico è duro, ma qualcuno deve pur farlo. Uccidendo per sempre Steven Spielberg alle prese con The Terminal: “È arrivato al Terminal pure lui, dopo I predatori, Incontri Ravvicinati e Schindler’s List ’sta scorreggetta patetica”, rieducando la prole al bel cinema o come nel caso di Hunger Games, impedire ai figli la marginalità sociale.
“PAPÀ ho preso otto in filosofia, nove in storia e dieci al tema di letteratura su Leopardi” con il padre, preoccupato: “Oddio, figlia mia! Mi verrai su una disadattata condannata a lavori sottopagati, andiamo subito a vedere Hunger Games, devi diventare più scema”.
ammazzafilmfront
AMMAZZAFILMFRONT
Una volta in sala, di fronte a un Donald Sutherland svogliato e irriconoscibile, inutilmente stimolato dai suoi colleghi di recitazione: “Presidente, i distretti si stanno rivoltando!” con il vecchio Donald, imperturbabile: “E ‘sti cazzi”.
Disegni ci fa ridere più di quanto normalmente non accada in sala. Spietato, avanza senza curarsi delle altrui sensibilità. Accade con l’italiano Colpo d’occhio sui cui fa calare la mannaia: “Sono Sergio Rubini, vi prego, aiutatemi. A volte vengo colto da incontrollabili raptus che mi fanno fare boiate come questa! È più forte di me, la prossima volta impeditemelo”. Con il controcanto: “Poveraccio, è una malattia… a un certo punto vogliono fare i registi… la prossima volta gli tagliamo le mani…”.
Avviene con Spike Lee, autore di Miracolo a Sant’Anna: “Sono Spike Lee, un grande regista, ho fatto questo film perché conosco il vostro paese e una volta ci ho girato una pubblicità”. Pausa: “Cominciamo, se non vi piace non capite un cazzo”.
L’AUTOCRITICA DI STEFANO DISEGNI: “MONICA MI PENTO, NON SEI UN’ATTRICE CAGNA”
Michele Anselmi per “il Secolo XIX”
Certo una coincidenza, ma curiosa. Monica Bellucci, come forse sapete, è stata scelta da Sam Mendes per fare, a 50 anni suonati, una delle due Bond Girl, l’altra è la giovane Léa Seydoux, nel nuovo capitolo della saga di 007 interpretato da Daniel Craig. Titolo nostalgico, che guarda al passato: “Spectre”.
Ed ecco che Stefano Disegni, classe 1953, vignettista e satirico formatosi al “Male” e poi a “Cuore”, rivaluta a sorpresa l’attrice umbra, da lui sempre disegnata sul mensile “Ciak” con la testa a forma di cagnetta. Preciso il riferimento alle sue doti interpretative. Precise, adesso, le scusa pubbliche.
Sulla contro copertina del volumetto “L’ammazzafilm”, una raccolta di cine-stroncature a fumetti edita da Gallucci e presto in libreria, Disegni piazza una vignetta siffatta.
“Il momento dell’autocritica” è il titolo. Vi si legge: «Ho sempre disegnato la Bellucci con la faccia canina, onde metaforizzare la sua capacità di recitazione. Non avevo sentito Asia Argento. Monica al confronto è Anna Magnani. Mi scuso e le restituisco il volto». Subito sopra l’attrice, finalmente con sembianze umane, sorride e sospira nel fumetto: «Era ora».
Non capita spesso. Disegni, un tempo in coppia con Massimo Caviglia e ora in solitaria ditta, è un satirico piuttosto feroce e temuto dalla gente dello spettacolo. «Un’anima irredenta» l’ha definito il direttore di “Ciak”, Piera Detassis, che non censura mai, ma attende con una certa trepidazione, specie se ci sono di mezzo attori e registi amici, la striscia sul film del mese massacrato regolarmente da Disegni.
In parecchi negli anni non hanno apprezzato, da Christian De Sica a Nanni Moretti, da Sergio Rubini a Valeria Bruni Tedeschi, da Gabriele Muccino ai fratelli Vanzina. Qualcuno non lo saluta più. Per Disegni il Mostro non è mai Sacro, anche quando, magari, sbaglia bersaglio e infiocina un film che non lo meriterebbe. Dice ancora Detassis: «Vendica tutti i bastian contrari, con invidiabile incoerenza fa a fette film, divi e registi venerati; e quando è in piena forma dichiara che “il re è nudo”, anche se italiano e cioè contiguo, amico, conoscente, naturalmente permaloso e soprattutto facile da incontrare dietro l’angolo».
Che è proprio quanto accaduto con Monica Bellucci. Così Disegni lo rivela al “Secolo XIX”. «Era una festa mangereccia con gente di cinema, attori e attrici, veri o autopresunti. Arriva un allegrone e mi fa: “Vieni che ti presento Monica Bellucci”. Volevo obiettare che era meglio mi aiutasse a mimetizzarmi col Ficus accanto al buffet, visto che la Bellucci la disegnavo col muso da cane (bracchetto umbro, per la precisione), come raffinata simbolizzazione delle sue capacità interpretative. Non ne ho avuto il tempo, me la sono ritrovata davanti».
E poi che succede? «L’allegrone fa: “Monica, lui è quello che ti disegna col muso da cane”. Perfetto. Bravo. Dopo t’ammazzo. Le ho detto: “Ok, Monica, il cazzotto qua sullo zigomo (non sul naso, per favore, ce l’ho bello)”. Mi ha risposto con un abbraccio, un bacio, un sorriso tipo mille violini suonati dal vento. E ha detto: “Ma scherzi? Mi fai morire dalle risate! Ma sono proprio così cane?”».
Un miracolo della natura… «Già. Non solo bonazza da deliquio, pure intelligente e autoironica, altro che certi puzzalnaso che m’hanno tolto il saluto. Quando se ne stava andando è venuta a cercarmi per salutarmi con ri-bacio. Continuo a pensare che non sia esattamente da teatro shakespeariano. Ma chi se ne frega. Così alla fine le ho reso giustizia. Glielo dovevo. C’è decisamente di peggio».
In effetti la bellona di Città di Castello ha dimostrato, rispetto all’esordio nel 1991 con “La riffa” di Francesco Laudadio, di essere un’attrice eclettica, anche duttile, ferrata con le lingue. Apprezzata per “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher, ha appena finito di girare “Sulla via lattea” di Emir Kusturica e tra un mese sarà la fascinosa Lucia per James Bond, di sicuro facendo impallidire il ricordo di Maria Grazia Cucinotta e Caterina Murino.
«Il ruolo me l’ha proposto lo stesso Sam Mendes, invitandomi a pranzo a Londra. Una volta, anni fa, c’ero anche andata vicina. Ma io faccio tutto molto lentamente. Prima figlia a 40, seconda figlia a 45. Si vede che era destino: Bond a 50» ha confessato Bellucci. Certo, lei vive a Parigi, si muove in una dimensione internazionale, guadagna un sacco di soldi, un tempo aveva la residenza a Montecarlo per pagare meno tasse.
Il pennarello avvelenato di Disegni non deve averla turbata più di tanto. «In fondo una striscia di Disegni è sempre meglio dell’indifferenza e ti fa uscire dal circo critico ormai un po’ consunto» avverte Detassis. Tuttavia, che Monica l’abbia fatto per riflesso autoironico o per strategia divistica, quel bacetto al terribile satirico ha di fatto demolito la parodia. Altre cine-cagnette dovrà trovare “il fumettaro all’amatrixiana” (Disegni così si definisce, citando l’amato-odiato “Matrix”) per tenere alto il prestigio di implacabile stroncatore.
LA GELIDA IRONIA DEL CRIMINE - AZIONE E HUMOUR NERO: IL CAPOLAVORO DEI COEN “FARGO” DIVENTA UNA SERIE TV - IL MATTATORE È BILLY BOB THORNTON, IMPASSIBILE VENDICATORE, CHE NON SOPPORTA NÉ GLI SCIOCCHI, NÉ I PROFITTATORI
Da martedì su Sky gli episodi ispirati al thriller dei fratelli Coen: il cast della serie, già premiata agli Emmy Awards e con cinque candidature ai Golden Globe 2015, nella seconda stagione cambierà tutto: nelle nostre miniserie, invece, preti investigatori e suore di pronto intervento restano in scena per l'eternità....
Massimo Bertarelli per “il Giornale”
Neve, tantissima neve. L'ambientazione è la stessa del celebre film del 1996 firmato dai fratelli Coen. Anche il titolo è identico: Fargo . La storia, nerissima nonostante lo sfondo, si svolge sempre in Minnesota, 19 anni dopo: quella nell'87, questa dunque nel 2006.
Al Noir di Courmayeur, la truppa di Sky, con un sadismo degno del malvagio protagonista, Billy Bob Thornton, ha mostrato in anteprima per la stampa soltanto il primo episodio della serie, che andrà in onda da martedì prossimo, 16 dicembre, su Atlantic. Le altre nove fette saranno trasmesse con cadenza settimanale alle 21.10 e replica due ore dopo fino al 10 febbraio. Beh, dalle premesse, ci sarà da sobbalzare spesso sulla poltrona di casa.
I cinefili ricorderano che nel film dei Coen, nella serie tv trasformati in produttori esecutivi, si parte da un indebitato venditore d'auto, pronto a rivolgersi a due balordi per inscenare il finto rapimento della moglie ed estorcere un bel po' di dollari al ricco suocero. Poi tutto va storto, ci scappano svariati morti, con le indagini affidate alla poliziotta incinta Frances McDormand (per inciso Oscar, con la sceneggiatura).
I punti in comune tra film e serie non mancano. Anche qui al centro della storia c'è uno sfigato, l'imbranatissimo assicuratore Martin Freeman (Il Bilbo Bagginsdi Lo Hobbit ), dileggiato in casa come anni prima a scuola. Neanche a farlo apposta ritrova per strada il bullo che lo tiranneggiava al liceo (e che pomiciava con la sua futura moglie), accompagnato dai due figli adolescenti. Un pugno lasciato a mezz'aria e il Fantozzi americano va a fracassarsi la faccia contro una vetrina, fra le risatone dei tre goliardi.
Nell'inevitabile visita al pronto soccorso incontra il killer Billy Bob Thorton, visto sbattere in auto contro un cervo nella scena d'apertura. Il tapino confida allo sconosciuto le proprie pene e quello gli si offre come vendicatore, a titolo gratuito. Detto fatto.
Il bullo viene trafitto da una coltellata mortale mentre si sollazza con una ballerina di lap dance, e i due freschi orfani, a onor del vero di stratosferica stupidità, sono messi uno contro l'altro dalla telefonata di un falso notaio, che annuncia al più anziano come e perché la sostanziosa eredità paterna spetterà per intero al più piccolo. Intanto il malridotto naso dell'assicuratore scatena l'ilarità prima e il disprezzo poi dell'insofferente consorte, sbalordita vittima dell'irrefrenabile rabbia dell'omino.
A farla breve, e senza rivelare più del dovuto, uno sbirro piomba per un controllo di routine in casa dell'improvvisato uxoricida e l'episodio prende tutta un altra piega. A cui non è certamente estranea la poliziotta Alison Tolman, perfetta erede della McDormand, sia per la scarsa avvenenza, sia per l'apparente inetttitudine.
A tenerle bordone spunta l'agente Colin Hanks, sì, il figlio di Tom Hanks, già trentasette anni, un libro d'oro con poche pagine e un talento tutto da dimostrare. Un'ora e otto minuti, lunghi titoli di coda compresi, che sono un susseguirsi di emozioni, in un continuo intrecciarsi, come i patiti dei Coen ben sanno, di umorismo, nero se non nerissimo, grottesco, tensione e violenza, saggiamente annacquata con abbondanti secchiate d'ironia.
Mattatore della serie, già premiata agli Emmy Awards e con cinque candidature ai Golden Globe 2015, Billy Bob Thornton, impassibile vendicatore, che non sopporta né gli sciocchi, né i profittatori. Uno quindi che in Italia sarebbe sommerso dagli straordinari. Purtroppo non lo vedremo nella seconda serie, già in lavorazione, perché i produttori hanno deciso di rinnovare il cast da cima a fondo. Proprio come nelle nostre miniserie, dove preti investigatori e suore di pronto intervento restano in scena per l'eternità.
IL PRESIDENTE DI SOTHEBY’S: “IL MERCATO MODERNO È GUIDATO DALLA MODA. AD ESEMPIO, A UN CERTO PUNTO, TUTTI I MUSEI VOLEVANO UN MATTIA PRETI. OGGI È DIFFICILE VENDERNE UNO’’
Wachter: “L’arte contemporanea ha il suo spazio e clienti differenti. Al momento ha un grande successo, alimentato dai giovani che la trovano più emozionante” - Consiglia: ‘’Volgete lo sguardo ad aree che non sono popolari, trovare cose che vi attirano e cercate di farle vostre”…
Alain Elkann per “la Stampa”
George Wachter è presidente di Sotheby’s per il Nord e il Sud America e co-presidente della Old Master Paintings Worldwide, con oltre 40 anni di esperienza nel settore. E’ entrato a fare parte del dipartimento «Old Master Paintings» di Sotheby’s nel 1973 e il suo ruolo è stato determinante per la vendita all’asta delle più importanti collezioni di dipinti antichi.
E’ soddisfatto della vendita all’asta, avvenuta a Londra, dell’olio su tela di Turner «Veduta di Roma dall’Aventino» per 30,3 milioni di sterline?
«Molto. E’ stato emozionante vedere quanto sia forte il mercato dei Turner. Avevamo già venduto all’asta un dipinto simile per 46 milioni di dollari pochi anni fa, ma ora questo è il secondo capolavoro più costoso mai venduto all’asta, dopo il meraviglioso “Strage degli Innocenti” di Rubens, che avevamo venduto nel luglio 2002».
Lei lavora per Sotheby’s da 40 anni. Che cosa è cambiato nel mondo delle aste?
«Parecchio. Si è passati da un commercio in gran parte su larga scala a uno più al minuto. Quando Alfred Taubman rilevò Sotheby’s nel 1983, la dinamica cambiò. E’ stato lui a introdurre l’idea di puntare al mercato privato, raggiungendo i clienti attraverso la pubblicità, scrivendo lettere e allestendo mostre itineranti. Negli Anni 80 ho cominciato io stesso a mettermi in contatto con i collezionisti privati e abbiamo avuto molto successo. Vendendo privatamente, si può chiedere un prezzo elevato e, quindi, negoziare».
I Grandi maestri sono fuori moda rispetto all’arte contemporanea?
«L’arte contemporanea ha il suo spazio e clienti differenti. Al momento ha un grande successo, alimentato dai giovani che la trovano più emozionante. Ma io sono meno abituato a praticare questo mercato».
L’arte contemporanea è un po’ una «bolla»?
«In parte sì. Ma Rothko, De Koonings, Jasper Johns, Warhol, ecc. - artisti che hanno una profondità e una storia - non sono affatto una bolla».
E’ facile trovarli?
«È ancora possibile acquisire delle opere importanti, perché appartengono a privati, e quindi sono più facilmente disponibili».
E non è questo il caso degli antichi maestri?
«È ancora possibile trovare il meglio del meglio, come nel caso del Turner, ma i capolavori sono pochi».
johns racingthoughts 1983
Come si fa a trovarli?
«Si sa dove cercare».
L’arte è una moda?
«Il mercato moderno è più guidato dalla moda, ma ci sono tendenze anche per gli antichi maestri. E poi ci sono modelli di gusto. Ad esempio, a un certo punto, tutti i musei volevano un Mattia Preti. Oggi è difficile venderne uno, perché non è di moda. Il 29 gennaio, a New York, organizzeremo una vendita per un mercante, Fabrizio Moretti, che svuota il magazzino. Gli ho detto che, se voleva un’asta di successo, doveva vendere dipinti di buona qualità a prezzi interessanti. Ogni dipinto di livello diventa attraente al giusto prezzo».
Come si fa a stabilire il giusto prezzo?
«I compratori esperti lo sanno. Per Moretti abbiamo messo insieme 32 lotti: tutte opere del Manierismo e del Rinascimento, nulla oltre il 1600. Un’offerta che si rivolge ai gusti attuali: molti prediligono il Rinascimento e pochi vogliono il Barocco».
Com’è il mercato per gli Impressionisti?
«Più simile a quello degli antichi maestri. Negli Usa si sono formate straordinarie collezioni di Impressionisti tra il 1945 e il 1970, quando queste opere si potevano comprare a buon prezzo. Poi questi collezionisti hanno cominciato a morire e, una dopo l’altra, le raccolte sono state vendute. Monet, Manet, Van Gogh, Degas si vendono bene».
Quanto conta il banditore?
«Henry Wyndham è il banditore della Sotheby’s che vende Impressionisti e antichi maestri a New York e Londra. E’ il migliore. Sa unire umorismo, atteggiamento rilassato e grande attenzione. E così attira le offerte».
Come si combinano l’arredamento d’interni e il collezionismo?
«Una regola è che ciò che è fuori moda è ciò che si dovrebbe comprare. Oggi è possibile acquistare splendidi mobili francesi del XVIII secolo per quasi nulla. Dicono che nessuno li vuole, ma la storia dimostra che torneranno in auge».
Perché la gente compra?
«Qualcuno per investire, altri per amore, la maggior parte per entrambe i motivi».
Che cosa consiglia?
«Ai collezionisti privati direi: “Siate creativi. Volgete lo sguardo ad aree che non sono forse così popolari, trovare cose che vi attirano e cercate di farle vostre”».
Ma com’è il mercato ora?
«Sale: segue il mercato azionario. Ci sono un sacco di soldi disponibili per gli oggetti di valore».
I momenti migliori?
«Le scoperte sono eccitanti. Quando avevo 27 anni, andai in un appartamento del Plaza, a New York, per valutare un dipinto di Dirk Hals. Mentre me ne andavo, vidi un oggetto che pareva una foto (e lo era secondo il proprietario). A me sembrava un dipinto floreale. Lo portai da Sotheby’s e scoprimmo che era una sbalorditiva natura morta di Jan Brueghel il Vecchio. Valeva 550 mila dollari, una cifra nel 1978. Incredibile. E così divertente!».
traduzione di Carla Reschia
OGGI CHI HA UN MILIONE DI EURO DICHIARA PER IL 32,6% DI POSSEDERE OPERE. UNA PERCENTUALE CHE SALE AL 55,5% PER CHI HA RISERVE DI OLTRE UN MILIONE E AL 58,6% PER I PAPERONI CON OLTRE CINQUE MILIONI
In una ricerca la trasformazione delle abitudini dei collezionisti: l’aspetto speculativo resta coniugato al fattore emozionale, al bisogno di status-symbol ossia alla necessità che alcune persone hanno di comprare arte per essere qualificati e riconosciuti come uomini di cultura dal gusto raffinato…
Paolo Manazza per "CorrierEconomia - Corriere della Sera"
Fame d’arte. Si potrebbe intitolare così un
Fame d’arte. Si potrebbe intitolare così una recente ricerca compiuta dall’Aipb (l’Associazione italiana private banking) sull’attenzione che i clienti italiani più ricchi hanno mostrato, nel corso degli ultimi anni, verso gli acquisti d’arte. Quasi la metà (il 47%) delle famiglie intervistate possiede opere. E l’83% dichiara di essere interessato a ricevere, su questo particolare segmento, un servizio dall’istituto bancario.
Il focus traccia un orizzonte sulla trasformazione delle abitudini consulenziali relative al complicato universo degli investimenti nel bello. Mentre il ricorso a mercanti/gallerie e alle case d’asta resta immutato (52% per i primi e 21% per le seconde), è cresciuto invece il rapporto con esperti indipendenti (dal 38% al 43%), compagnie assicurative (dal 2% al 10%), commercialisti (dal 2% al 5%) e, ben appunto, banche (dal 5% all’8%).
La fotografia del collezionista appare per nulla scontata, se non per il fatto che vive prevalentemente in grandi città. Per il resto non esistono grandi differenze tra uomini (41%) e donne (38%), età (sino a 40 anni il 40%; oltre il 41%) e istruzione (con laurea il 44%, senza il 38%).
Quantità
La dimensione del patrimonio totale incide invece in modo diretto sulla scelta di differenziare una parte del denaro investito in beni reali. Anche se, c’è da notare, che le percentuali di interesse verso acquisti d’arte sono cresciute esponenzialmente rispetto a un decennio fa.
in gestione sino a un milione di euro dichiara per il 32,6% di possedere opere. Una percentuale che sale al 55,5% per chi ha riserve di oltre un milione e al 58,6% per i paperoni con oltre cinque milioni. La ricerca cristallizza bene i bisogni alla radice del collezionismo. L’aspetto puramente speculativo (ossia «l’acquisto di opere volto alla conservazione e possibilmente all’incremento del patrimonio personale») è soltanto uno degli elementi scatenanti.
Ma resta, comunque e sempre, coniugato ad altri tre fattori. Il bisogno emozionale, ossia un’esigenza legata alla sfera intima di ciascun individuo. Il bisogno di testimonianza, ovvero il risvolto pubblico di grandi collezionisti e di istituzioni che attraverso la scelta di opere acquistate testimoniano se stessi. E infine il bisogno di status-symbol ossia la necessità che alcune persone hanno di comprare arte per essere qualificati e riconosciuti come uomini di cultura dal gusto raffinato. E’ evidente che a seconda del peso di questi tre fattori cambia l’orientamento.
Negli ultimi anni, a livello internazionale, l’ampia crescita di attenzione verso l’arte contemporanea è riuscita spesso a fondere questi tre bisogni. Nel senso che la ricerca di emozioni unita a uno studio estetico, con miglioramento della propria sensibilità percettiva, ha permesso di orientarsi verso scelte e scoperte di autori o nuovi talenti in grado nel tempo di accrescere anche la visibilità della propria collezione.
Certo, la passione verso i cosiddetti Old Master ossia la pittura antica, mostra sempre un alto indice di stabilità nei valori. E, di conseguenza, risultati migliori nelle performance difensive del patrimonio investito. Mentre i segmenti dell’arte moderna e contemporanea appaiono più rischiosi sotto questo profilo.
Evoluzione
Se un tempo tra i servizi più richiesti agli istituti bancari vi erano quelli legati alla consulenza nella trasmissione generazionale di patrimoni d’arte, oggi la situazione appare modificata. Al primo posto restano i servizi peritali legati all’assicurazione. Quelli inerenti la ricerca e il rilascio di perizie sono passati dal 33% all’attuale 45%. Stessa percentuale di crescita per l’assistenza diretta su acquisti e vendite. Mentre la valutazione estimativa è passata dal 31% al 39%.
Un forte plus per gli istituti consiste nel fatto che, nella maggior parte dei casi, il servizio di art advisory è fornito gratuitamente nell’ambito della consulenza globale. Ad esclusione delle spese vive di interventi gestione e manutenzione (le fee delle fondazioni per le autentiche, le spese di restauro, trasporto, assicurazione).
Normalmente, all’interno del wealth management, l’attività di art banking è gestita da una persona dedicata di estrazione bancaria. Che si avvale, per oltre la metà dei casi in cui il servizio è fornito, di strutture specializzate in outsourcing. Attualmente sono circa il 44% gli istituti che non offrono questo servizio, mentre ben il 13% lo ha in fase di allestimento.
La crescita di interesse delle banche verso l’art advisory è proporzionalmente legata all’aumento di interesse generale verso l’arte. E soprattutto alla forte tendenza (39% degli intervistati) a considerare con estremo interesse la propria banca come interlocutore nei servizi necessari alla gestione ed incremento del proprio patrimonio artistico.
QUANDO LA DEMOCRAZIA TEDESCA SI VEDEVA SOLTANTO AL VARIETÀ: “L’UNICO CAMPO DI BATTAGLIA SUL QUALE, CON LE PAROLE GIUSTE E LA MUSICA SI POSSONO DISTRUGGERE LE ARMI”
Dal drammaturgo Wedekind che contribuì a fare del Kabarett uno spazio critica sociale ai figli di Thomas Mann che mettono alla gogna la violenza del nazismo fino a Biermann che a Berlino Est fustiga i burocrati e invoca libertà: in un libro la storia del varietà in Germania da prima di Hitler fino alle due repubbliche del dopoguerra…
Luigi Forte per “la Stampa”
Che spasso dovevano essere il grande regista Max Reinhardt vestito da Pierrot e il drammaturgo Frank Wedekind con indosso una tunica rossa e una mannaia in mano. L’uno nel ruolo di conférencier davanti al pubblico esultante del cabaret berlinese Schall und Rauch inaugurato nel gennaio del 1901, pochi giorni dopo quello aperto dal barone von Wolzogen, l’Überbrettl, nei pressi di Alexanderplatz. L’altro, a Monaco, nel leggendario locale Undici boia nel quartiere bohémien di Schwabing, pronto a intonare le sue grottesche ballate come Brigitte B. o L’assassinio delle zie.
Chansonnier
Quello chansonnier era in realtà il più rivoluzionario autore di teatro dell’epoca: Brecht impazziva per i suoi testi, Heinrich Mann lo venerava e Karl Kraus lo lanciò nella sua Vienna. Era un uomo con un grande carisma, ostile alla morale sessuale borghese, alla censura e al Kaiser che lo spedì in carcere.
Un cantastorie irriverente e mordace che contribuì a fare del Kabarett (è d’uopo a quelle latitudini la cappa) uno spazio di libertà e critica sociale dove, più che altrove, affiorava lo spirito dell’epoca, come ci racconta con grande vivacità Paola Sorge nel suo libro Kabarett! Satira, politica e cultura tedesca in scena dal 1901al 1967 pubblicato dall’editore Elliot.
Un Baedeker della risata, dello sberleffo, del ghigno satirico, in cui l’autrice invita non di rado il lettore a partecipare direttamente ad alcune serate. La sua ospitalità riserva infinite sorprese come i gustosi testi tradotti e i personaggi che si alternano sulla scena della «piccola musa» per la quale scrivevano poeti e artisti di primo piano: dal rivoluzionario Erich Mühsam a Walter Mehring, dal vagabondo Klabund allo scrittore Erich Kästner e al grande Tucholsky, uno degli spiriti più graffianti dell’epoca weimariana. Le musiche erano spesso di Friedrich Hollaender, autore di canzoni di successo come quelle lanciate da una provocante Lola Lola, cioè Marlene Dietrich, nel film L’angelo azzurro di von Sternberg.
In quei locali, trasformati spesso in club privati per evitare le noie della censura, dove gli autori erano per lo più pagati con un pasto o con pochi spiccioli, nacquero grandi dive come Gussi Holl, che si esibiva allo Chat noir di Berlino nella centralissima Friedrichstrasse per un pubblico d’alto bordo, o la piccola e maliziosa Claire Waldoff che, poco lontano, al Linden-Kabarett, apostrofava con spavalderia l’imperatore. Era già una star prima dello scoppio della Grande Guerra e divenne un prototipo per le cantanti degli Anni Venti e Trenta come Blandine Ebinger e Trude Hestenberg.
Quest’ultima aveva aperto il locale Wilde Bühne nella cantina del Theater des Westens dove esordì con un paio di ballate il giovane Brecht e dove si esibì anche Josephine Baker, ingaggiata nel 1925 al Café Sanssouci dal musicista Rudolf Nelson che aveva un debole per le chanson piccanti.
La satira politica
Sono gli anni ruggenti in cui la scena del Kabarett mostra sempre più il volto d’una Germania democratica, antimilitarista e antifascista. E trova accoglienza nei caffè, mentre vanno di moda le riviste in celebri locali come il Wintergarten e il Metropol, dove furoreggia la maliarda Fritz Massary che stregava gli uomini con la sua voce.
I POSTI PIÙ DELUDENTI SULLA TERRA - NELLA LISTA DEI 16 LUOGHI ASSOLUTAMENTE DA EVITARE, BEN 3 SONO ITALIANI E CHE CITTA’: PISA, POMPEI E NAPOLI, CHE PER LE TROPPE ASPETTATIVE (E SPAZZATURA) DELUDONO I TURISTI
In opposizione alle gettonatissime classifiche dei “10 posti più belli da visitare”, “i 15 che non ti puoi perdere”, le città, le spiagge, ecc, “Reddit” (un social network di news e intrattenimento), ha chiesto ai suoi utenti di buttare giù una lista in direzione opposta e contraria: “Quali sono i posti dove bisognerebbe assolutamente non andare?”..
Da http://uk.businessinsider.com
In opposizione alle gettonatissime classifiche dei “10 posti più belli da visitare”, “i 15 che non ti puoi perdere”, le città, le spiagge, ecc, “Reddit” (un social network di news e intrattenimento), ha chiesto ai suoi utenti di buttare giù una lista in direzione opposta e contraria: “Quali sono i posti dove bisognerebbe assolutamente non andare?” Ecco la lista dei 16 luoghi del mondo che, secondo i followers del sito, sono deludenti e da evitare.
1. Casablanca.
"Il luogo meno interessante in un paese affascinante. Solo un quartiere commerciale sulla costa. Oltre alla moschea, molto costosa, non c'è davvero niente da vedere". (Matthattan)
2. Malè.
"Molto meglio il resto delle Maldive". (I_Nickd_it)
3. Jamaica.
"Ti chiedono mance e soldi per tutto. Se andate alla ricerca di natura e cultura resterete assai delusi. Si sta dentro un resort a sguazzare in piscina”. (aussydog)
4. Le grandi piramidi d’Egitto.
"Si è perseguitati da egiziani che cercano di venderti qualsiasi cosa, al punto che dopo 15 minuti si sente la necessità di fuggire". (Broes)
5. La torre di Pisa.
"È troppo più piccola rispetto quanto ti aspetti dalle immagini." (happypants69)
6. Il monte Rushmore
. “Pieno di turisti e l’impressione è deludente nel complesso”. (Rateasti)
7. Stonehenge.
"Molto più piccolo di quanto si pensi e non è possibile nemmeno avvicinarvisi”. (StallinWasAJerk)
8. Daytona Beach, Florida.
“Non c'è letteralmente niente da fare."(danecdote)
9. Pompei,
Italia. "Piena zeppa di turisti. Mal conservata. Molto meglio Ercolano”.
10. Gibilterra.
"C’è solo una grande roccia e niente più." (Noneerror)
11. Le spiagge a Sentosa, Singapore.
"Vedi solo petroliere e fabbriche che vomitano fumo all'orizzonte. Sembra una specie di distopia futuristica”. (magnora4)
12. Napoli.
“Per i mucchi di spazzatura per le strade" (GuluOne).
"Nella città di Napoli e nelle campagne circostanti la mafia controlla la gestione dei rifiuti da decenni." (Azertys)
le bellezze di Napoli sfigurate dall'immondizia
13. Andorra.
"Se ci ripenso, mi sembra di aver visitato l’outlet d’Europa”. (Breerocks)
14. Marrakesh.
“Non mi sono mai sentita così abusata prima. Molestie, mancanza di rispetto, urla. Ho visto un venditore chiedere a una madre quando avrebbe dovuto pagare per la figlia bionda e adolescente”. (probs_wrong)
15. Atene.
"Ci aspettavamo il luogo dove è nata una grande civiltà. Abbiamo trovato baraccopoli e impalcature". (Kuba_Khan)
16.
Las Vegas.
"Non ne vale davvero la pena. Le strade sono sporche, piene di senzatetto e ubriaconi”. (Mos_definitely)
ACCENDI IL NATALE - SAN FERNANDO PAMPANGA, A NORD DI MANILA, E’ "LA CAPITALE NATALIZIA" DELLE FILIPPINE DOVE OGNI ANNO SI SVOLGE UNA ROMANTICA GARA DI LANTERNE GIGANTI
Le lanterne in competizione misurano tra i 6 e i 7 metri di diametro e sono illuminate dalle 3.500 alle 5.000 lampadine multicolore….
Ansa - A San Fernando Pampanga, a nord di Manila, quella che i filippini chiamano "la capitale natalizia" del paese si è svolta l'annuale gara di lanterne giganti, una festa molto popolare. Le lanterne in competizione misurano tra i 6 e i 7 metri di diametro e sono illuminate dalle 3.500 alle 5.000 lampadine multicolore.
ALDO GIOVANNI E GIACOMO (2,3 MLN €) TORNANO DOPO 4 ANNI E DOPPIANO IL CINEPANETTONE VANZINA-PARENTI (1,1 MLN) - IN AMERICA È PRIMO MA DELUDE IL POLPETTONE BIBLICO “EXODUS”, NEL MONDO TRIONFA “LO HOBBIT 3”
I tre comici contestati dalla comunità africana in Italia per il “blackface”, il bianco che fa il nero con la faccia pitturata - Woody Allen è terzo, non male “Storie Pazzesche” (7°) - “Lo Hobbit” sbanca nei 38 paesi in cui è uscito (non ancora gli USA), in Italia arriva giovedì...
1. INCASSI DEL WEEKEND 11-14 DICEMBRE
Niente da fare. Aldo, Giovanni e Giacomo, con Il ricco, il povero e il maggiordomo battono nella prima settimana di cinema natalizio il cinepanettone firmato Vanzina-Parenti-Boldi, cioè Ma tu di che segno 6?, con la bella cifra di 2 milioni e 300 mila euro contro 1 milione 71 mila euro. Potevamo aspettarcelo, visto che l’ultimo film del trio di comici, La banda dei Babbo Natale, uscito ben quattro anni fa, incassò la bellezza di 22 milioni.
Il pubblico è ancora molto affezionato ai tre, anche se c’è stata qualche protesta da parte delle comunità afro-italiane, come I figli della lupa, che hanno segnalato come negativo e razzista l’uso nel film della parodia “blackface” del nero da parte di Aldo, Giovanni e Giacomo che, scrivono, “avendo probabilmente esaurito altri spunti comici per i loro sketch, hanno deciso di utilizzare il blackface come idea poco geniale per la loro comicità, soprattutto considerando l'attuale periodo storico, in cui gli stereotipi negativi sui neri abbondano più che mai!”.
Il blackface è la vecchia parodia del nero fatta da un bianco con la faccia tinta. Per fortuna non hanno neanche capito bene il testo della vecchia canzoncina da cabaret milanese “I wakaputanga” di Walter Valdi, coi “negher del menga”, altrimenti sarebbero stati ancor più furiosi. Al terzo posto troviamo Magic in the Moonlight di Woody Allen con 768 mila euro, al quarto I pinguini di Madagascar con 700 mila euro, e poi Scemo & + scemo 2 con 450 mila.
Non male l’incasso dell’argentino Storie pazzesche di Damian Szifron con 237 mila euro. La guerra dei cinepanettoni però proseguirà fino al 6 gennaio, e la prossima settimana entreranno dei possibili vincitori come Lo Hobbit: la battaglia delle cinque armate di Peter Jackson, il film natalizio prodotto da Aurelio De Laurentiis, Un Natale stupefacente diretto da Volfango De Blasi con Lillo e Greg, il cartoon Marvel-Disney Big Hero 6 di Don Hall e ChrisWilliams e Jimmy’s Hall di Ken Loach. Si vedrà come andranno le cose.
In America vince il polpettone biblico diretto da Ridley Scott Exodus: Gods and Kings con 24, 5 milioni di dollari alla sua prima settimana scalzando Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1, secondo con 13, 2. Purtroppo Exodus: Gods and Kings, ha incassato la metà di Noah alla sua prima settimana e è stato malamente accolto dalla critica e già si parla di flop epocale per un film costato 140 milioni di dollari. Mentre Hunger Games: Il canto della rivolta Parte 1 arriva in America a un totale di 277 milioni, I Pinguini incassano altri 7, 3 milioni e arrivano a un totale americano di 58 milioni.
Top Five, diretto e interpretato da Chris Rock, uscito solo in 979 sale, fa un buon risultato con 7, 2 milioni, seguito da Big Hero 6 con 6, 1, e un totale di 185, e da Interstellar con 5, 5 e un totale di 166 che, con gli incassi mondiali arriva alla bellezza di 622 milioni di dollari. Tra le uscite mirate, Inherent Vice di Paul Thomas Anderson ha raccolto 330 mila dollari con sole 5 sale. Uscito in 38 mercati internazionali, Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate di Peter Jackson, è primo negli incassi internazionali con 117, 6 milioni di dollari.
In Germania ne ha fatti 19, 5, in Gran Bretagna 15, 2, in Francia 14, 5 e in Russia 13, 4. Un trionfo assoluto. Exodus: Gods and Kings, uscito in 27 mercati, ha raccolto solo 18, 8 milioni di dollari. Tra i risultati più clamorosi di ogni singolo paese si segnala che in Francia l’orsetto inglese Paddington ha travolto il noir nazionale The French con Jean Dujardin, mentre in Sud Corea è primo con 4,7 milioni di dollari uno strano documentario, My Love, Don’t Cross Than River di Mo Young Jim, dove sono protagonisti un uomo di 98 e sua moglie di 89 sposati da più di quarant’anni.
QUARANT’ANNI FA ESPLODEVA LA DISCO-MUSIC DI DONNA SUMMER E DEGLI CHIC, UN BORDELLO DI COLPI D'ANCA E CULI SCOSSI IN UN FORTILIZIO FODERATO DI SPECCHI, FUORI DAL QUALE IL TEMPO, LA SOCIETÀ, IL DESTINO, POTEVANO TENDERE I LORO LEGITTIMI AGGUATI E LA VITA RITIRARE LE SUE PROMESSE. "FUORI", IL DOLORE; "DENTRO", IL PIACERE - 2. IL 1974 FU L’ANNO IN CUI LA DISCO DILAGÒ DAI CLUB DI MANHATTAN; E DA LÌ A POCHI MESI, CON UNA RISONANZA SENZA PRECEDENTI, IN TUTTI GLI USA E NEL RESTO DEL MONDO - 3. GLI ECCESSI DEI ''NOTTURBINI" ISPIRARONO UN ARTICOLO DEL GIORNALISTA NIK COHN: “TRIBAL RITES OF THE NEW SATURDAY NIGHT” (I RITI TRIBALI DEL NUOVO SABATO NOTTE). DA QUEL TESTO ‘’LA FEBBRE DEL SABATO SERA’’ CHE NEL ‘77, CON JOHN TRAVOLTA DIVENTATO CULT NEI PANNI DI TONY MANERO, CHE TRADUSSE IN IMMAGINI CINEMATOGRAFICHE UN FENOMENO MUSICALE E DI COSTUME. RINASCITA PER MOLTI, PER QUALCUN ALTRO PIAGA SOCIALE E CULTURALE
1. 40 ANNI DI DISCO MUSIC - DA UN LOFT NEWYORCHESE FINO AI DAFT PUNK PASSANDO PER TONI MANERO STORIA DI UN GENERE MOLTO ODIATO. E MOLTO BALLATO
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Il Natale di quarant’anni fa non fu come tutti gli altri a New York. C’era un suono nuovo nell’aria, cominciavano a chiamarlo disco music. Negli ultimi mesi i club erano spuntati come funghi. Complici invisibili maestri di cerimonia, i disc jockey, la vita notturna era tornata effervescente come negli anni del twist, quando il Peppermint Lounge di Times Square era preso d’assalto dai posseduti del nuovo ballo e dagli immancabili vip — da Jacqueline Kennedy a Greta Garbo.
Il 1974 fu l’anno in cui la disco dilagò dai privé e i club underground a tutta Manhattan; e da lì a pochi mesi, con una risonanza senza precedenti, in tutti gli Usa e nel resto del mondo. Gli eccessi e le stravaganze dei nightclubber, un popolo che ormai si muoveva alla controra per la metropoli a tormentare il riposo dei pantofolai, ispirò un articolo del giornalista Nik Cohn sul New York Magazine: “Tribal Rites of the New Saturday Night” (i riti tribali del nuovo sabato notte).
Da quel testo Norman Wexler trasse ispirazione per la sceneggiatura de La Febbre del sabato sera che nel ‘77, con John Travolta diventato cult nei panni di Tony Manero, tradusse in immagini cinematografiche un fenomeno musicale e di costume. Rinascita per molti, per qualcun altro piaga sociale e culturale.
David Mancuso, il dj il pioniere della disco, non avrebbe mai immaginato che quei private party a suon di Soul Makossa che cominciò a organizzare dal febbraio 1970 nel suo Loft al numero 647 di Broadway (poi costretto dalle proteste dei vicini a traslocare al 99 di Prince Street), poco più di duecento metri quadrati, avrebbero generato quel pandemonio. Il locale, il cui motto era “Love saves the day”, diventò il rifugio della clientela gay, stanca di essere derisa e magari anche ammanettata nelle discoteche straight, dove ancora il ballo tra maschi era considerato criminale.
Facevano la fila al Loft, un piccolo business che fece gola anche a imprenditori facoltosi. Vecchi teatri newyorchesi — alcuni con una storia che risaliva ai ruggenti anni Venti (quando il ballo epidemico era il charleston) — si ribattezzarono con nomi ammiccanti per ospitare il popolo più glitterato della storia della dance music: Paradise Garage, The Gallery, The Saint, il preferito dai gay, e a Chicago il Warehouse, culla della house music e regno del leggendario dj Frankie Knuckles.
Lo stile musicale — che riconosce in Barry White il suo vate, in Gloria Gaynor la sua vestale e in Donna Summer la sua regina — è ben raccontato nel volume patinato di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano La Disco — Storia illustrata . Corredato da una prefazione di Bob Esty e da un’intervista a Giorgio Moroder, l’italiano che insieme a Nile Rodgers è oggi il più riverito dei sopravvissuti all’epide e da un’intervista a Giorgio Moroder, l’italiano che insieme a Nile Rodgers è oggi il più riverito dei sopravvissuti all’epidemia, il libro è il più esauriente compendio sulla produzione di un genere trascurato dalla critica e apertamente avversato dall’intellighenzia (che però non faceva segreto di trovare irresistibili le notti a base di sesso e coca sotto la mirror ball dello Studio 54).
Nel 1975 Love To Love You Baby, l’orgasmodisco di Donna Summer abilmente architettato da Moroder in Germania, tutto sospiri e sintetizzatori, fece scalpore almeno quanto la lasciva Je t’aime … moi non plus della coppia Gainsbourg-Birkin, che nel ‘69 esortava i ballerini a più lenti corpo-a-corpo.
Era l’inno ipnotico, sensuale e robotico che la generazione di
La reazione degli ex figli dei fiori e di chi aveva giurato fedeltà al rock fu immediata. A New York i nuovi club spazzavano via inesorabilmente quelli che avevano fatto fortuna negli anni d’oro del folk revival; dove erano passati Dylan e Pete Seeger ora una folla di nuovi dandy si scatenava al suono di una musica che mai nel Novecento era stata così spudoratamente edonistica, futile e in qualche caso anche più scema di Loco Motion o Da Do Run Run.
L’Emporium di Bleecker Street, nel Greenwich Village, che vendeva bootleg e cimeli rock, fece incassi insperati smerciando t-shirt bianche con le scritte “Disco Sucks”, la musica disco fa schifo, oppure “Death to Disco”, morte alla disco; slogan che in molti casi accompagnarono fino alla fine degli anni Settanta vere e proprie campagne xenofobe e omofobiche all’indirizzo di gay e/o ispanici, i leader della disco revolution.
L’industria, al contrario, non esitò un istante a trarre profitto dal fenomeno: di disco si macchiarono anche il punk (Debbie Harry), il rock (David Bowie, il più lungimirante, strizzò l’occhio alla dance già con ‘’Young Americans’’) e persino gli evergreen (Liza Minnelli).
Quella musica, considerata contagiosa come la peste e culturalmente degenere, salvò il culo ai Bee Gees, ex enfant prodige in caduta libera riportati al top dalla colonna sonora di Saturday Night Fever , un repertorio che stanno riciclando da quasi quattro decenni ed è tuttora una risorsa indispensabile del music business; i riff degli Chic sono stati conditi in salse diverse da Prince e Madonna (che all’epoca ebbe una relazione sentimentale e artistica col dj John Jellybean Benitez), George Benson e Rolling Stones, Herbie Hancock e Lady Gaga, Daft Punk e Pharrell.
Il leggendario Studio 54 aprì i battenti nel 1977, in piena disco fever — non più una febbriciattola ma un ceppo influenzale più resistente dell’asiatica. La discoteca, nel cuore di Broadway, realizzò su larga scala il sogno di Mancuso: coinvolgere una popolazione cosmopolita, interraziale, transgender e transgenerazionale.
Non c’erano soltanto, come la storia tramanda, Warhol e Jagger, Diana Ross e Salvador Dalí, Jackie Onassis e Diana Vreeland, Truman Capote e Martha Graham, Baryshnikov e Divine (il travestito diventato simbolo della trasgressione disco), ma anche un folto pubblico di paganti rigorosamente selezionato alla porta non in base al ceto ma all’apparenza: “everybody is a star!”.
Per noi che arrivavamo dalle province d’Europa in cappotto e dolcevita non c’era modo di ottenere il visto d’ingresso. Un gigante nero che masticava un po’ d’italiano ci indirizzò a uno scantinato sulla Nona Avenue dove a ottanta dollari (allora il biglietto di un concerto era di cinque) liquidavano gli invenduti di Charivari, la boutique delle grandi firme.
IL GIORNO IN CUI TRASFORMAMMO UN TUM-TUM IN FEBBRE
Giorgio Moroder, estratto dal libro “La disco. Storia illustrata della disco music, Arcana edizioni, pubblicato da “La Repubblica”
A me la musica disco è sempre piaciuta. Potrei dire che è nata con Love To Love . In precedenza brani miei come Son Of My Father o Lady Of The Night erano sì ballabili, ma non quanto Love To Love . L’idea di inserire la cassa in 4/4, che in realtà era contro il mio senso musicale fino a quel momento, fu determinante. Nello studio di registrazione tutti ballavano, e così abbiamo deciso di continuare a usare il tum-tum della grancassa anche nei dischi successivi: ecco come abbiamo iniziato
squadra valida con lo stesso batterista, tastierista, chitarrista etc. per tutte le produzioni e sapevo esattamente come guidarli. Poi negli anni Ottanta hanno iniziato a chiamarla “dance” anche a causa di una dimostrazione violenta che c’era stata a Chicago nel 1979 e conosciuta come “Disco sucks” (“la disco fa schifo”, ndr) che ha cambiato la percezione del fenomeno in senso negativo. In quel periodo di transizione, con Donna Summer abbiamo commesso l’errore di non accorgerci che il fenomeno stava sparendo.
Sulla nostra hit, Hot Stuff , abbiamo aggiunto delle chitarre rock, ma avremmo dovuto continuare su questa scia anche con il mio album From Here To Eternity e soprattutto con il disco successivo , e= mc2. Per fortuna poi per me è iniziata l’era fortunata delle colonne sonore con Flashdance . Comunque l’etichetta discografica, la Geffen, non si è mai impegnata per promuovere la nostra musica. Il culmine fu raggiunto con il rifiuto di David Geffen in persona di pubblicare l’album doppio che avevamo inciso nel 1-981 , I’m A Rainbow.
Probabilmente a lui la disco proprio non piaceva. Il momento migliore? Il 1977.
Ricordo che quell’anno è stato magico in Italia: in estate Donna era al numero uno con I Feel Love , Roberta Kelly al due e io al quattro con From Here To Eternity… Niente male, vero?
Viviamo in un'epoca in cui, come scriveva Baudelaire, le cose non deformate non hanno volto. E la discoteca è lo specchio deformante di questa realtà. Uno spazio di sovrabbondanza, eccesso, prevaricazione, frastuono, colore accecante, esibizionismo, estasi.
Malgrado gli stereotipi da rotocalco, questo modo diverso e "fuoriorario" di far oratorio ha prodotto nell'ultimo tratto del Novecento una sottocultura fatalmente mutante, senza falsi bersagli, né falsi movimenti. Una mitologia attrezzata per accogliere tutto e il contrario di tutto, che si è rumorosamente alterata e trasformata e svuotata nel corso del tempo alla stregua di un codice egiziano, di un'araba fenice, di un oleogramma.
Se una notte dell'estate '78 un viaggiatore si avventurava nella nuova e accecante terra delle discoteche gli sarebbe capitato di imbattersi in uno scenario somigliante tantissimo a un bordello di colpi d'anca, un fortilizio foderato di specchi, un "Paradiso pedestre", fuori dal quale il Tempo, la Società, il Destino, potevano tendere i loro legittimi agguati e la Vita ritirare le sue promesse. "Fuori", il dolore; "dentro", il piacere.
Un universo che non voleva più credere nella violenza, cariche di poliziotti e sfoghi di studenti, katanghesi autonomi e pariolini autosufficienti, Lotta Continua e "da oggi prendo la spranga", cantautore stonato e complessino scordato, eskimo e Inti Illimani, picchettaggio e volantinaggio, sballi e scazzi, la frittatina al topo nell'osteria alternativa, militanza-a-tempo-pieno, "il privato è politico", "vogliamo tutto", "checcazzo!", viva l'ago, camuffarsi da proletari o da ragazzo di riformatorio, immaginazione al potere e Parco Lambro, 'radio libere' in modulazione di frequenza, Moro tra errore e terrore. Altro che ballare: c'è di che correre a Lourdes. ("Dieci undici anni di lotte / Discorsi, dibattiti, discussioni / Attentati, ferimenti, uccisioni / Per mandar Castellina e Capanna / All'assemblea di Strasburgo". 1968-1978 secondo Alberto Arbasino).
Così, in quei complicati, violenti, tragici, oscuri, alla fine senza speranza anni Settanta, le disco-dance attivate dalle piroette de "La febbre del sabato sera" (1978) hanno rappresentato il segnale dell'inizio di un decennio che rovescerà la vita di tutti. Gli Ottanta hanno incorniciato la "starizzazione-pop" profetizzata da Andy Warhol (quindici minuti di celebrità non si negano a nessuno), l'ascesa rapida, nel cielo dei valori pubblici, delle nuove mitologie del successo e di una festevolezza un po' irresponsabile, destinata a una gioventù che gettava con tutte le forze alle proprie spalle gli oltre duemila morti, Aldo Moro compreso, della guerriglia politica degli anni Settanta.
Aria! Aria! la guerra è finita e la bella epoque è qui, sembrava dire quel popolo di "notturbini" che affollavano le piste da ballo dell'Easy Going" e del "Much More". Improvvisamente, volano nell'aria certe sberle di ritmo che sono peggio delle revolverate. Il dialogo a due "piatti" tra i disc-jockey Marco Trani e Corrado Rizza è, in filigrana, il racconto di due protagonisti del "Grande caldo" che l'esplosione del fenomeno disco-dance accese tra le nuove generazioni.
Un "documento" dal vivo del cambiamento, senza birignao socio-letterario, ma dialogo 'selvaggio', amarcord in presa diretta, di due ragazzi che non vogliono portare il lutto di nulla ben consapevoli che si è chiuso il ciclo "Settanta" della politicizzazione, del protagonismo collettivo e della ricerca della felicità sociale, secondo l'espressione coniata dal sociologo Albert Hirschmann, autore appunto del libro "Felicità privata e felicità pubblica" (che spiega come i pendolarismi della storia derivino dall'oscillazione dei gusti del pubblico fra questi due poli). Mescolare le carte, dunque.
Dal sinistrismo al narcisismo, dal Noi all'Io, dalla sommossa delle Bierre alla mossa delle Pierre, da Lotta Continua al successo di breve durata, dai furgoni cellulari al telefonino cellulare, dal significato al significante, dalle fratte ai frattali, dal ciclostile al fax, dalla rivolta a Travolta. E' stato un Pediluvio universale. "Impara l'arte e mettila nei party" (Achille Bonito Oliva). Peperoncino dall'inizio alla fine. Alè, conciliare l'alto e il basso. L'est e l'ovest. La Storia e la scoria. La qualità e la quantità. Lo snob e il Blob. I Dik Dik e i Duran Duran. Le Botteghe Oscure e le boutique lucenti.
Lo scavalcamento dei ruoli, la sapienza combinatoria, il desiderio di sedurre, era ben rappresentato e legittimato dalle culture emergenti degli anni Ottanta: il Post-moderno nell'architettura, la Transavanguardia nella pittura, il "pensiero debole" nella filosofia, la New Wave nella musica giovane, il miraggio del look nelle tribù giovanili, il computer come memoria istantanea, il video come operazione di smontaggio e rimontaggio della realtà. Se non si può opporre l'avanguardia alla tradizione, né l'avvenire al passato, contro gli opposti estremismi, il "doppio-gioco" è allora un tentativo positivo di mettersi in comunicazione con l'astuzia del tempo e l'ambivalenza del presente.
E non è singolare che sia toccato proprio a Umberto Eco, uno dei più raffinati ed elitari intellettuali nostrani, di diventare con l'intercontinentale e incontinente trionfo popolare del "Nome della rosa" il garante dello slittamento, della doppia identità. La cosiddetta 'febbre del sabato sera' non è stata una voga stagionale. L'émpito da discoteca di Tony Manero, compreso quello spavaldo burinismo tamarro di stile ampiamente dileggiato dai comici dell'epoca, non è stata una passione particolarmente graziosa: implicava crudezza, materialità, sesso, emozioni gettate senza garbo, un atteggiamento rubizzo e spavaldo.
A partire, dal proprio abbigliamento, inteso a rappresentare non ciò che si è, ma ciò che si vorrebbe essere. La loro 'tragedia' è che non possono permettersi altro sacrificio che il divertimento. Per ritenersi unici, al di sopra di qualsiasi ritratto, si mettono in cammino da Cuneo, partono da Canicattì, sopraggiungono da Bitonto per stordirsi nelle discoteche adriatiche dove ridono, sorridono, sballano, come gli attori di un film horror che, durante una pausa delle riprese, si dimenticano di togliersi il finto coltello dalla schiena o di detergere il sangue finto. S'imbottigliano in pista a mezzanotte, e si mettono a nanna alle otto del mattino, "strippati" e lessi.
I dati Siae dimostrano che, nel '78, le presenze nelle sale da ballo sono aumentate del 40-50 per cento rispetto all'anno precedente. Così che la disco-music svuota palestre, supermercati, ex-cinema, retro-bar, sottoscala, club privées esclusivi, Cral ferroviari, portinerie, ex tendoni da circo, bagni pubblici, per riempirli di specchi e piste girevoli, tempestarli di luci psichedeliche, fecondarli di fasci stroboscopici, inondarli con bolle di sapone. Da Ibiza a Mykonos, da Riccione a Manhattan.
E' nata per lo scrittore Tom Wolfe la "Me Generation"; per il sociologo Christopher Lasch trattasi di "cultura del narcisismo"; per gli intellettuali italiani "la disco è una multinazionale del rimbecillimento di massa". Non riuscivano a scorgere, i nostri geni del pensiero, la doppia vita che scorreva sotto la pista da ballo. Da una parte c'era un locale, un ambiente concreto, legato ai fatti, come un qualsiasi altro prodotto di consumo per il tempo libero.
Dall'altra scorreva un fiume incontrollato di desideri feroci, solitari, romantici, una concentrazione di estasi e violenza che era il vero sogno di ogni ragazzo. Il proletario Manero-Travolta, di giorno sfigato commesso in un negozio di vernici, di notte irresistibile ballerino-bellimbusto in discoteca, sanava una contraddizione profonda della cultura giovanile post '68. Metteva d'accordo due cose che erano già entrate in pesante conflitto fra di loro.
Quel desiderio di successo, quella voglia, quel "bisogno" di scavarsi una identità forte che nessuna ubriacatura ideologica riuscirà mai a liquidare, da una parte. E dall'altra, il terrore della competizione, dura, ingrata, inutilmente lacerante. Ecco: in quanto vissuta come attività "espressiva" e non "competitiva", la danza permetteva questo miracolo. "Ingrottarsi" in una discoteca, del resto, non nasce da un bisogno di ribellione ma piuttosto da un bisogno mistico, biologico di calore umano, di "camaraderie", di fratellanza, di solidarietà.
Eccoci tutti in pista; spazio che diventa antro, grotta, rifugio, guscio, terra di nessuno. Che cos'è la gioventù, se non un popolo, un mondo, un continente che sviluppa ombrosamente i propri valori, disvalori, gusti, disgusti, sapori, abitudini di abbigliamento e, attraverso la musica, il suo particolare sistema di comunicazione?
E' la "sofferenza" di diventare grandi il punto di partenza; un frenetico modo di riempire i buchi della vita, sia quelli del dolore sia quelli della noia. Si va alla ricerca del piacere non come fine, ma come terapia. Così entriamo nel più intrigante (e disturbante) aspetto della discoteca: è edonismo privo di individualità, ricerca di un piacere collettivo, bambagia baluginante che ci protegge da un mondo smorto.
In altri tempi, il tipo di piacere e ricerca di abbandono, di cui la discoteca è espressione, fu condannato e temuto dalle autorità - avventurarsi in uno speakeasy, spaccio clandestino di alcolici, assumeva un carattere di sfida al Proibizionismo degli anni Venti - perché era un atto di ribellione individuale contro quella autorità, un ostinato isolamento dal gregge.
La discoteca, invece, non possiede nessuna individualità - la sua anonimità è la quintessenza del suo fascino. Chi balla non manifesta, ma si manifesta. E' una "ribellione" senza volto, un big-bang nella testa, motivato da sentimenti di alienazione, di angoscia, dalla necessità di scaricare la depressione quotidiana. Ballare in una discoteca può non sembrare un atto di rifiuto, ma lo è quando rivendica la danza, e la musica, come il significato reale della vita.
Per dire: ecco, niente è più certo dell'incerto. Al verticale, i fanatici della discoteca preferiscono l'orizzontale, si appassionano al pavimento, che almeno il loro precario Paradiso Pedestre ingombri lo spazio, che ci si inciampi dentro, che impedisca la solitudine. La cosiddetta "democrazia del frivolo", infatti, portava con sé i valori della creatività individuale e del pluralismo, riconciliava la tecnologia con il gioco, il potere politico con la seduzione, il sesso con il piacere, il divertimento con la vita: la sua incoscienza favoriva la coscienza, le sue follie il rispetto dei diritti e della libertà di tutti.
Sedotta da un menù a ideologia zero che preferiva l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, la gente mostrava di amare le grandi riunioni di gruppo, aveva bisogno dei suoi momenti "confusionali", dove ognuno poteva non tanto far confusione, quanto "confondersi" con gli altri.
Aveva bisogno dei suoi momenti di "edonismo popolare", di "contagio affettivo", di "logica passionale"; aveva bisogno insomma di un'orgia: in questo senso panico, confusionale, emozionale. E ottiene sulla piste da ballo, anche se in forme mascherate da un Kitsch sfrenato, il suo momento di massimo "orgiasmo".
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