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BILL MURRAYe l'importanza di essere attori
BILL MURRAYÈ L’UNICO TRA GLI ATTORI DI SUCCESSO A NON AVERE UN AGENTE NÉ UN ADDETTO STAMPA -
NON HA IL CELLULARE E NON USA LA EMAIL: “NON È UN PROBLEMA MIO, SEMMAI DI CHI MI CERCA, E COMUNQUE QUALCUNO CHE MI TROVA ALLA FINE C’È SEMPRE”
Ora “Murricane” (questo il soprannome che gli hanno affibbiato per via del suo caratterino) si trasforma in Babbo Natale per la regia, per la seconda volta dopo “Lost in Translation”, di Sofia Coppola - Ha alle spalle due matrimoni, due divorzi, due figli dal primo matrimonio, quattro dal secondo… -
Maria Pia Fusco per “la Repubblica”
«Quando Bill Murray sorride si crea subito un’atmosfera di festa». Ha detto proprio così Naomi Watts dopo aver lavorato con lui in St. Vincent, un film dell’anno scorso distribuito da Netflix. Magari una festa a sorpresa, perché in realtà Bill Murray non è certo un uomo che sorride spesso mentre è piuttosto famoso per i suoi repentini cambi di umore. Può passare dalla cordialità più amichevole all’ostinata chiusura in silenzi scontrosi, ragione per cui nell’ambiente è per tutti “Murricane”, soprannome affibbiatogli da Dan Aykroyd, il collega “acchiappafantasmi”.
Non a caso Murray è uno dei pochissimi, se non l’unico tra gli attori di successo, a non avere né un agente né un ufficio stampa, e sui set o ai festival arriva da solo e senza il consueto stuolo di assistenti. Il fatto poi che non abbia un cellulare e non usi mai le email rende ancora più difficile il contatto. «Ma questo non è un mio problema, è un problema per chi mi cerca, del resto c’è sempre qualcuno che mi trova» dice lui con il più accattivante dei sorrisi.
Fortunatamente al Festival di Marrakech, quindicesima edizione, è emerso il lato buono della sua complessa personalità. Fin dalla prima sera, quando Sofia Coppola, la regista di Lost in Translation che nel 2004 gli portò la candidatura all’Oscar, gli ha consegnato il premio alla carriera: «Ho sempre rifiutato questo genere di riconoscimenti che suggeriscono una fine. Se accetto, e con gioia, è perché il mio cuore è pesante per quanto accaduto a Parigi, pesante per quanto accaduto a San Bernardino e perché questo premio mi viene dato qui, in questa parte di mondo».
La buona disponibilità d’animo resiste anche nelle ore successive. Bill Murray parla, e lo fa persino volentieri. Prima, però, premette: «Non so se sono stato soltanto un comico oppure un vero attore. Quello che so è che se non fossi entrato nel mondo dello spettacolo oggi sarei un professionista dello sport, forse un grande campione di baseball. Ma a pensarci meglio la verità è che non so neppure bene chi veramente sono: diciamo che quando recito e interpreto un ruolo sono una persona migliore che nella vita».
Con un’ottantina di titoli alle spalle, Murray di ruoli ne ha interpretati tanti e diversi da quando a venticinque anni — è nato a Chicago nel 1950 — conquista la prima popolarità nel Saturday Night Live imponendo la sua comicità stralunata, caustica, surreale.
Nel ‘79 raggiunge il successo sul grande schermo con una commedia del genere scolastico, Polpette, diretto da Ivan Reitman, lo stesso regista che nel 1984 lo guiderà in Ghostbusters — Acchiappafantasmi, il film che consacra il suo talento comico a livello internazionale. Inizia lì a interpretare una lunga serie di personaggi sarcastici, svitati, politicamente scorretti, arroganti, come in Lo sbirro, il boss e la bionda del 1993, che entusiasmò il pubblico americano, e non solo, per il rovesciamento dei ruoli: il duro Robert De Niro che fa il poliziotto timido, mentre a Murray vengono messi i panni del boss prepotente (la bionda è Uma Thurman).
Intanto la vita privata avanza nel segno dell’irrequietezza. Due matrimoni, due divorzi, due figli dal primo matrimonio, quattro dal secondo: «Non ho mai saputo conciliare il lavoro con la vita famigliare. Ho sempre in mente il proposito di fermarmi e occuparmi di figli e di nipoti, ma continuo a rinviare».
Del resto, verso la fine degli anni Novanta, si fa irrequieta anche la carriera. Comincia una nuova fase in cui interpreta personaggi malinconici, irrisolti, solitari, talvolta depressi, come ne I Tenenbaum (2002) di Wes Anderson, storia di una famiglia sgangherata che non trova pace; o come in Broken Flowers (2005) di Jim Jarmusch in cui Murray è un maturo, tragicomico ex dongiovanni che parte alla ricerca di un figlio segreto e delle donne che ha incontrato nella vita.
Ma ovviamente l’esempio più noto e fortunato è il maturo divo di Hollywood sbarcato in Giappone di Lost in Traslation (2003): «E pensare che ero molto diffidente nei confronti di Sofia Coppola, pensavo fosse solo la-figlia-di. Poi ho letto la sceneggiatura e non ho esitato ad accettare il film», ricorda Murray che ha inserito la Coppola tra il gruppetto di quelli che considera «i registi e gli amici della vita», con — appunto — Reitman, Jarmusch e Anderson.
Con la regista è tornato a lavorare adesso in A Murray Christmas, un musical prodotto da Netflix: «In parte recito me stesso, ma soprattutto ballo e canto con grandi ospiti, come Chris Rock, Jason Schwartzman, George Clooney. Con George cantiamo in duetto un paio di canzoni natalizie. Devo dire che lui è bravissimo. E ho scoperto di essere bravo anch’io. Pensare che da giovane, prima di fare il cinema, quando cantavo in un gruppo rock, ero pessimo, ancora oggi non so com’è che non mi abbiano mai buttato giù dal palco. Ora sento di avere una bella voce. Forse l’ho affinata dando la parola a un mucchio di animali nei film di animazione » riflette pensando a Garfield (2004) e a Fantastic Mr. Fox (2009)di cui ancora con Wes Anderson sta preparando il sequel.
Un altro suo film, Rock the Casbah, di Barry Levinson, è uscito nei giorni drammatici degli attentati di Parigi e non ha avuto l’attenzione che forse meritava. Qui Murray interpreta un manager alla deriva che si redime in Afghanistan salvando la vita di una ragazza dotata di un grande talento musicale.
«Ma non è il ritratto del bravo americano, è una storia contro le guerre. Il mio personaggio non è un eroe, è solo un uomo che trova un ultimo guizzo di coraggio. Quando ero giovane l’immagine dell’eroe americano era chiara, era colui che andava a combattere contro le tirannie e le ingiustizie del mondo. Dopo la Corea, dopo il Vietnam, dopo l’Iraq questa immagine si è annebbiata. Oggi moltissimi americani non capiscono affatto che cosa stia accadendo. Pensi a quanto è successo a San Bernardino: sono state uccise persone dedite alla cura del prossimo, gente straordinaria, rara, che non cresce sugli alberi.
Per quanto mi riguarda, su queste faccende io non condivido tutto quello che faccio io, figuriamoci se condivido tutto quello che fa l’America. Tutti i paesi commettono errori, e tanto più risaltano se sono commessi da una grande potenza. Ma se c’è una cosa che proprio non sopporto è quando si dice che è stata l’America a creare il terrorismo. Questo no, non lo accetto. Dopodicché, cosa vuole, alla fin fine io faccio l’attore, mica sono un veicolo di pace».
Eppure un segno di pace in fondo lo è anche la sua presenza in Marocco. «Sono sincero. In tanti mi hanno sconsigliato, ma io non voglio e non posso vivere nella paura. La paura è la negazione della vita. Curiosamente proprio in tempi come questi i nostri vecchi Ghostbusters (l’anno prossimo arriverà la puntata numero tre, regia di Paul Fey) stanno diventando una metafora: alla fine dei conti combattono contro chi vuole distruggere New York».
Il nostro incontro sta per concludersi e Murray appare incredibilmente ancora di buon umore. Accenna persino ai progetti- per-il-futuro: «Sto cercando una storia per tornare alla regia, mi piacerebbe ripetere l’esperienza di venticinque anni fa quando ho diretto Quick. Ma forse voglio fare troppo. E forse dovrei smetterla una dannata volta di rinviare il progetto di dedicare tempo alla famiglia».
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